L'invasione è iniziata tanto tempo fa. Decenni, forse addirittura secoli.
Un tempo le persone, quando erano libere dal lavoro o altri impegni (e, in effetti, accadeva di rado), si riunivano tra loro, si raccontavano storie, chiacchieravano, giocavano o chissà cos'altro. In seguito, almeno chi sapeva leggere, si isolava per godersi i propri libri, con tutte le varianti: sotto un albero a studiare Dante, sul muricciolo del lungomare o al tavolino del bar a leggere il quotidiano, in biblioteca a scorrere tomi di filosofia, di storia o di altro. La cultura portava a isolarsi, questo bisogna dirlo. Però in cambio si avevano le conoscenze e le informazioni, che non è roba da poco.
Successivamente è arrivata la radio, poi la televisione, poi Internet.
E la capacità di isolarsi è diventata comune, anzi ubiquitaria. Il tempo libero - e a volte anche quello lavorativo - lo si trascorre senza alzare quasi mai gli occhi da uno schermo. Le nostre vite sono piene, sature dei Social, delle fake news, di hater e troll come nemmeno in una saga nordica. I neuroni si sovraccaricano di informazioni inutili e dannose. Tanto tempo viene inesorabilmente buttato via, al macero. Perché queste ore trascorse su Facebook o su Instagram, su Twitter o su Snapchat non portano - il più delle volte - ad alcuna crescita personale. Spesso, anzi, al contrario.
Il digitale è una gran cosa, ma sa anche essere una trappola micidiale: invece di usarlo, ci lasciamo usare. E come in tanti campi della vita umana, così anche nella fotografia.
Non solo si scatta con fotocamere digitali, ma gran parte della nostra passione nasce, si evolve e muore online, in un ambiente "digitale".
Sui forum, sui social o anche sui siti specializzati (come Flickr), si discute, magari animatamente (nel limite in cui la cosa è possibile solo scrivendo, senza l'ausilio del body language insomma), si stroncano o si esaltano le foto altrui, si massacrano i principianti e si commentano gli ultimi acquisti d'attrezzatura, generalmente sottolineando i difetti della fotocamera ultimo modello, o i limiti della costosa ottica f/2.8, e così via.
Si fotografa poco, temo, e ancor meno si ragiona di fotografia fuori dai Social.
Ebbene, anch'io ci casco spesso, specialmente con Facebook. Sarà che ci lavoro, con questo Social, ma poi vengo sempre catturato da qualche polemica, solleticato da qualche questione aperta, trascinato dalla chiacchiera imperante (e non solo di fotografia), e così il tempo vola via, e ne emergo col rimpianto di averlo buttato inutilmente.
Così, come il ritorno alla fotografia analogica mi è servito a ritrovare anche un equilibrio creativo, la cura per la sindrome da social - nel mio caso -si chiama Camera Oscura.
La mia Camera Oscura è davvero poca cosa: ho trasformato il bagnetto annesso al mio laboratorio installandovi due piccoli tavoli, uno per la coppia di ingranditori (per il 135 e per il 120) e uno per le bacinelle. Per il lavaggio breve uso il lavandino, per quello lungo una bacinella nel vano doccia. Tutto qui. Il costo è stato praticamente zero, visto che il materiale mi è stato regalato, o è stato frutto di scambi. Ma quello che mi da questo spazio è impagabile.
Non voglio fare tutta la tiritera sulla magia del buio appena rotto dalla luce rossa, del fascino della foto che emerge sulla carta nella bacinella dello sviluppo, e così via. E nemmeno star lì a sottolineare la bellezza di creare qualcosa "a mano", artigianalmente, con fatica, e con un sacco di errori e materiale buttato (ma fa parte del gioco). Sebbene tutto questo sia assolutamente la parte preponderante dell'intera faccenda.
Quel che conta è che spegnere i social e accendere l'ingranditore è oggi un gesto assolutamente rivoluzionario, direi addirittura politicamente consapevole, stante l'immondizia che sui citati social oramai impazza.
Nell'utero buio della Camera Oscura ritrovi te stesso, ti ricarichi di energia: poi tornerai su Internet e sui Social (chi può farne a meno, oramai?), ma non sarà come prima. Il tuo sguardo sarà più limpido, la tua volontà più salda.
Almeno, mi piace pensarla così.
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